Mkhitaryan si racconta: "Gli inizi in Armenia, le difficoltà con Mourinho. E quel trofeo che non dimenticherò"

Quest'oggi Henrikh Mkhitaryan ha presentato il suo libro "La mia vita sempre al centro", direttamente dal Mondadori Store in Piazza Duomo a Milano, e si è raccontato a tutto tondo partendo dagli inizi in Armenia: "Quegli inizi mi hanno reso un uomo più forte, quando li risolvi diventi un uomo vero. Fanno parte di una persona che ha vissuto sempre in Armenia e vuole essere sempre fiero di essere armeno malgrado tutti i problemi. Non avevamo acqua al centro sportivo e a casa, c’era solo per due ore al giorno e quindi dovevamo provare a fare la doccia in quel momento; facevo i compiti con il lanternino, non è stato facile però siamo sopravvissuti. Posso essere un esempio per questa generazione per fargli capire che vivere senza Internet è facile ma vivere senza acqua e luce no”.
Due lauree, sette lingue parlate. Questo grazie a tua nonna che ti raccomandava di studiare.
“Quando sei piccolo non ti rendi conto del perché tua madre ti dicesse queste cose, poi crescendo lo capisci. Ricordo che per punizione per aver mentito sul fatto di aver fatto i compiti mi fece studiare fino alle 3 di notte, per farmi capire che con lo studio non si scherza”.
Nel corso della tua carriera hai fatto slalom legati alla politica e alle tensioni vissute tra l’Armenia e altri Paesi.
“Sono stati momenti difficili perché non poter partecipare ad uno shooting del Borussia Dortmund essendoci compagni turchi è stato difficile. Anche la finale mancata a Baku è stata un peccato perché avrebbe potuto essere l’unica finale della mia carriera. Ma non devi abbassare la testa, andare avanti e crearti il futuro”.
Sognavi l’Arsenal e alla fine hai giocato lì.
“Pensavo che quella fosse la squadra dei giovani talenti con un tecnico bravissimo che li faceva giocare. Avevo le videocassette quando ero bambino. Arsene Wenger era un gentleman e un grande allenatore, prima di andare in campo ci diceva di divertirci”.
Con Emery avevate problemi di lingua.
“Quando arrivò a Londra non sapeva una parola di inglese, però ha studiato da subito. Non è stato facile comunicare con lui, per tre mesi non ho giocato titolare perché aveva altre idee di gioco. Quindi ho deciso di andare via. Ci sono stati giochini di vita che ti mettono in difficoltà per capire se ne puoi uscire come persona forte”.
Con Mourinho non è stato subito amore. È stato l’unico col quale hai litigato davvero.
“Ho avuto tantissimi problemi ma ho sempre cercato il problema dentro di me, non ho mai litigato. Sono sempre stato pronto ai tuoi giochi, facendomi trovare sempre pronto. In Inghilterra a quei tempi potevi portare 18 giocatori, e capitava che mi chiamava quando andavamo in trasferta e mi diceva che non ero convocato. Voleva vedere se fossi stato capace di affrontare questi problemi e io non mi sono mai lamentato perché magari avrei avuto l’opportunità di giocare in futuro. A Roma abbiamo lavorato benissimo, abbiamo vinto la Conference portando un trofeo a Roma dopo tanto tempo e ci siamo abbracciati”.
Qual è il momento più bello vissuto in campo?
"Direi la finale di Europa League vinta con il Manchester United. Ma anche le due finali di Champions sono state un orgoglio, perché molti giocatori non arrivano a giocarla. Avrei voluto vincere, ma la vita va avanti e bisogna accettare le sconfitte".
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