Chivu: "Mi piace insegnare calcio. Le emozioni sono le stesse del primo giorno"

Chivu: "Mi piace insegnare calcio. Le emozioni sono le stesse del primo giorno"
© foto di Matteo Gribaudi/Image Sport
giovedì 22 luglio 2021, 20:02Primo piano
di Luca Chiarini

Protagonista di una lunga intervista ai microfoni di Inter TV, il neo-allenatore della Primavera nerazzurra Cristian Chivu ha raccontato le sue emozioni per questa nuova avventura. Di seguito tutte le sue dichiarazioni.

Dall'Under 14 alla Primavera. Quali sono emozioni di questo nuovo step?
"Le emozioni sono le stesse del primo giorno. Ho iniziato questo percorso da zero, per capire se potesse piacermi o meno. È una cosa he mi fa star bene, mi fa sentire il sangue che scorre tra le vene, e posso trasmetterlo ai ragazzi. Sono partito dal basso, poi ho avuto la fortuna di lavorare con gli Allievi Nazionali, poi Berretti e Under 18. Quest'anno proseguo il cammino della mia piccola carriera da allenatore. Sono motivato, i ragazzi mi insegnano tanto, io provo a dargli dei consigli non solo dal punto di vista professionale, ma anche di vita. Ho sempre avuto colleghi che mi hanno trasmesso qualcosa".

Quanto è importante avere dei ragazzi che già conoscono la sua idea di calcio?
"Io parto sempre da zero, secondo me ogni anno bisogna portare qualcosa di nuovo. Siccome quello che abbiamo fatto l'anno scorso non vale, bisogna sempre partire da zero. Io faccio finta di non conoscerli, ho imparato in questi anni che mi stupiscono ogni giorno in qualcosa, sia positivamente che negativamente. Bisogna responsabilizzarli: non sono più ragazzini, hanno obiettivi da raggiungere. Negli anni abbiamo sempre cercato di trasmettere la cultura del lavoro, e pensiamo di aver fatto bene sotto questo punto di vista".

Cosa pensa di trasmettere ai suoi ragazzi?
"Mi piace insegnare calcio. Vengo da delle realtà che mi hanno permesso di crescere, anche da adulto. A partire dall'Ajax, dove si comportavano con noi come fossimo in un settore giovanile anche in prima squadra. Il fatto che fossimo tanti giovani legittimava questo atteggiamento, quindi io cerco sempre di trasmettere qualcosa. Ogni giorno devi avere un obiettivo, altrimenti diventa una routine, diventa una cosa che ti butta giù dal punto di vista motivazionale. Bisogna insegnargli sempre l'obiettivo da raggiungere, il percorso che devono fare. Poi deve venire anche qualcosa da dentro: fare autocritica, trovare le motivazioni".

Ha allenato tante categorie. Che differenze ci sono?
"Ci sono grosse differenze: un quattordicenne non si può comportare diciottenne. Stare in un ambiente come il nostro, dove cerchiamo di trasmettere dei valori importanti, consente loro di crescere bene. Poi ovvio, c'è chi impara all'inizio ed è più pronto rispetto agli altri, ma mi stupiscono tutti i giorni, io cerco di trasmettere qualcosa ma anche di imparare da loro. Io a diciotto anni ero diverso da loro, quindi bisogna adattarsi alla realtà di oggi".

A livello di tensione quando è importante l'aspetto mentale?
"È fondamentale. Per come vedo io il calcio, è quello che fa la differenza. La preparazione mentale deve essere sempre curata ai massimi livelli. Siccome tengo all'intensità di gioco, alle letture che devono fare, magari riesco con l'esperienza a vedere cose che loro non vedono, e provo a trasmettergli queste cose. Sono ragazzi, spesso hai bisogno di tanta ripetitività per raggiungere un determinato obiettivo, con la voce penso di poter amplificare e velocizzare questo processo".

Quanto ha inciso la scuola olandese nella sua crescita professionale?
"Fare il calciatore e l'allenatore sono due modi di vivere diversi, non so quale sia più semplice. A me piace giocare, mi piace quando i ragazzi sono applicati e concentrati. Per me il calcio è divertimento, se non lo tratti così non è sport, diventa una cosa che ti pesa. Ci si può divertire lavorando al cento percento, o puoi anche scegliere di divertirti e basta. Bisogna far capire ai ragazzi che attraverso la cultura del lavoro ci si può divertire. Non vale solo il campo, conta anche tutto quello che c'è intorno. È un bel lavoro, devono raggiungere la maturazione in fretta e capire che la vita di un calciatore dura poco, bisogna sfruttare il momento. Io ho avuto al fortuna di andare nel campionato olandese a diciotto anni, ma avevo già fatto due anni di Serie A rumena, quindi è stato più facile impostare degli obiettivi. A ventun anni sono diventato capitano, ma avevo compagni più giovani e i più grandi l'hanno accettato. Per me è stato un orgoglio, come lo è stata tutta la mia carriera".

Cos'ha imparato dagli allenatori che ha avuto?
"Io ho sempre cercato di imparare qualcosa da tutti. Fisicamente non sono mai stato un fenomeno, ho sempre avuto dei problemi fisici. La mia carriera l'ho costruita con la testa, ho cercato di riadattare il mio gioco a quello che riuscivo a fare. Non sono stato fortunatissimo con i traumi subiti, ma ho sempre cercato di apprendere qualcosa dagli allenatori che ho avuto. Ognuno è diverso dall'altro: c'è chi gestisce di più, chi lascia più libertà, ma devi sempre farti delle domande da giocatore, che poi ti porti dietro. Ho imparato da tutti, ma soprattutto ho imparato da mio papà: faceva l'allenatore a bassi livelli, vederlo tornare a casa e preparare gli schemi mi ha insegnato tanto, lì ho visto la passione. A volte, piuttosto di passare del tempo con le mie figlie, passo del tempo a preparare quello che non ha funzionato in allenamento. Ho la fortuna di avere una famiglia che mi comprende, e ho avuto la fortuna di lavorare con allenatori importanti".