Chivu shock: "Fallo di Pellissier? Devo dire delle cose mai dette, prendevo un sacco di medicine"
Cristian Chivu nella rubrica 'Mister si nasce' su Sportitalia ha rilasciato una lunga intervista per raccontarsi e rivelare tanti retroscena della sua vita da calciatore e quella di oggi da allenatore della Primavera dell'Inter. Prima la sua infanzia: "Ero un bambino senza niente, senza la tv, però ero felice. Un bambino che ha trovato sempre insieme ai suoi amici il modo per divertirsi e crescere bene. Poi strada facendo mi sono appassionato al calcio".
Una passione in virtù della famiglia?
"Mio padre ex giocatore di calcio che poi intraprese la strada di allenatore in una squadra dilettantistica. Un po' di passione me l'ha trasmessa mio padre, però ho tentato tanti sport, da karate a sci di fondo e tennis. Per poi ritornare al mio grande amore, il pallone da calcio".
La prima grande esperienza che tutti ricordano è con l'Ajax.
"Erano gli anni dove l'Ajax arrivava in finale di Champions, io arrivo dopo. Una grande opportunità, ero cresciuto nel loro modello. All'epoca una grande opportunità che ho colto al volo, la migliore scelta che potessi fare. Maturo come uomo e calciatore in quel contesto. Mi è servita per ttuta la vita".
In quell'Ajax c'era Ibrahimovic. Era già quello che conosciamo oggi?"
"Aveva già l'ambizione. Aveva la testa giusta nel capire qual era il suo obiettivo senza mai perdere di vista il percorso. La differenza l'ha fatta lì, nel migliorare e nel fare le cose. Un giocatore fantastico, ha scritto la storia".
Poi ti sei trasferito alla Roma.
"Avevamo fatto quel percorso fantastico all'Ajax, quasi in semifinale di Champions League. Purtroppo non ce l'abbiamo fatta, perdemmo col Milan all'ultimo secondo. Roma opportunità giusta per cambiare, per il mio completamento e per uscire dalla zona di comfort. Dovevo fare un passo in avanti, dovevo mettermi alla prova, per far vedere che ero cresciuto come uomo e atleta. Sono stati 4 anni meravigliosi nella capitale".
Tra le stelle con cui hai giocato c'è anche Francesco Totti.
"Sì, quello che mi stupì la sua umiltà. Perché come giocatore non c'è niente da dire, conosciamo tutti la sua visione di gioco. Come persona però credo che in pochi hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Un ragazzo umile, siamo legati da una sana amicizia. Sono felice di aver conosciuto una persona vera".
Che ricordi hai di Roma? C'è qualcosa che rimpiangi?
"Io mi sono sempre imposto come obiettivo di vincere qualcosa. Abbiamo vinto una Coppa Italia contro l'Inter, ne perdemmo 2-3 finali sempre contro di loro. Avrei voluto vincere uno Scudetto per i tifosi, siamo finiti secondi. Credo che avrei completato l'opera e avrei cambiato squadra o sarei rimasto senza problemi".
Sei passato dalla famiglia Sensi a quella di Moratti poi, all'Inter.
"Per me la squadra più forte del campionato. Giocandoci contro me n'ero reso conto. Siccome ho avuto modo di scegliere, la Roma non mi offriva più un contratto ed era arrivato il giorno per me di cambiare squadra. Senza fiducia allora ho scelto io dove andare, sapevo dell'interesse dell'Inter e scelsi loro. L'ambiente Roma non accolse bene la mia decisione, ma dovevo pensare a me, a quello che mi rendeva felice. Ero testardo e volevo fare a modo mio. Ma quando non sento più fiducia intorno a me dovevo prendere una deciisone e credo che l'Inter fu la decisione giusta. Per me vincere titoli e trofei fu fondamentale".
Parliamo dell'anno del Triplete, cosa ricordi in particolare?
"È una cosa che dura per un'annata intera. Tutto nasce strada facendo, mai una cosa programmata. Quando giochi nell'Inter devi sempre giocare per vincere tutto, ma nel mese di maggio ti ritrovi coinvolto in tutte le competizioni possibili. Finché giorno dopo giorno arrivammo al 22 maggio dove vincemmo tutto. Un'emozione indescrivibile perché vincere non è mai scontato: ci vuole un po' di fortuna, persone e ambiente giusto, per darti la possibilità di vincere. Una gioia anche per tifosi e presidente Moratti, per tutti quelli che sono stati vicini alla squadra".
Cosa ti disse Mou prima della finale di Madrid in Champions League?
"Non ricordo, avevamo parlato tanto prima, eravamo andati a Madrid qualche giorno prima. Quello che parlò in quel periodo prima della partita fu Samuel Eto'o. Lui aveva vinto la Champions, sono state dette delle parole, ma in verità una finale di Champions non è mai facile da gestire. La paura che un giocatore può avere è "E se perdessimo?". Ti fa avere delle farfalline nello stomaco, anche se sei consapevole id essere forte ti fa preoccupare".
I giocatori più forti con cui hai giocato?
"Ho giocato con tanti forti, non è mai giusto parlare solo di uno o due. Ci sono stati compagni e giocatori che hanno fatto strada col lavoro. Arrivare a giocare a certi livelli conta con tanti fattori, con lavoro e passione. Sono orgolioso di aver avuto tanti compagni con questi componenti, ovvio che chi fa gol porta la delizia per il pubblico".
Torniamo a quel 6 gennaio 2010 e a quella paura per il fallo di Pellisier...
"Era il mio giorno di rinascita. L'autoironia credo che faccia parte di me. Quel momento difficile da gestire, non sapevo come sarebbe potuto finire tutto. C'è mancato poco per non riuscire più a parlare e muovere la parte sinistra del mio corpo. Però i giorni di convalescenza, le mille domande che mi facevo e nonn trovavo le risposte, l'incertezza di non riuscire più a essere un giocatore professionista. Ma anche di tornare ad essere un uomo normale. Pensavo a mia figlia all'epoca, ne avevamo solo una. Se avrei potuto continuare a insegnare delle cose. Eppure sono riuscito a giocare ancora, seppur nella mia anormalità. Tutto colma coi tempi frettolosi di tornare in campo, anche se mi avevano detto che dovevano passare mesi importanti. Con tutte le incertezze e paure che soffrivo in campo, soprattutto nel colpo di testa. Mi sento fortunato. Devo specificare delle cose mai dette, prendevo un sacco di medicine che mi portarono a fare cose non da me come gesti osceni a Roma o il pugno a Marco Rossi o la litigata con Rafa Benitez. Ricordo che i miei compagni chiedevano se a casa fossi tranquillo, se non mettessi le mani addosso a mia moglie. Ci tengo a precisarlo perché prendevo delle medicine e nessuno lo sapeva. Prendevo antiepilettici che dovevo prendere per 2 mesi e invece li ho portati avanti 9 mesi".
Spalletti e Mourinho sono due allenatori vincenti che hai avuto. Cosa ti hanno dato?
"Tanto, non solo loro due. Chi ho avuto e chi ho affrontato, ho sempre guardato il lato umano e non professionale di un tecnico. Guardavo il lato umano, nasce dal vedere mio padre dopo l'allenamento a casa con carta e penna in mano. Una cosa che stimolava e io volevo capire quella parte. Loro due allenatori vincenti, onesti, integri, vogliono migliorare i loro giocatori".
Una caratteristica di Mourinho e una di Spalletti?
"Mou ha tanto carisma, integro, ha conoscenze sia per il campo e ha quella sensibilità e quel fiuto di capire chi ha di fronte. Uguale per Spalletti, uno che migliora i giocatori, sono nell'albo d'oro nel calcio italiano e non solo".
Terminata la carriera da calciatore poi diventi allenatore...
"Tutto nasce dall'Uefa, quando andavo a fare l'analisi tattica in Champions League. Cercare le tendenze, guardare il calcio al top. Ero l'unico senza patentino, e mi dissi di non poter andare a farlo senza. Seguii il corso a Coverciano. Poi i contatti con l'Inter c'erano stati, con Piero Ausilio e Roberto Samaden mi incontrai in America nel settore giovanile, ma non me la sentivo. Volevo stare con la mia famiglia. Poi si rinnovò l'offerta e accettai. Ho scelto io di partire dal basso in una squadra non professionistico, per vedere se i ragazzi mi avrebbero capito. Fare l'allenatore è anche questo. Mi appassionò e quest'anno sono fortunato a chiudere un ciclo, mi fa piacere vedere qualcosina di quello che avevo trasmesso nel 2005".
A proposito del legame speciale con Samaden...
"Una persona perbene, anche se al livello del settore giovanile non ha paragoni. Mi sento onorato e orgoglioso di averlo conosciuto".
Lo scudetto Primavera dello scorso anno è arrivato forse un po' a sorpresa?
"Per me non lo è stato. Ho avuto la fortuna di lavorare con loro, sapevo i punti deboli del gruppo, le carenze. A un certo punto della stagione ci siamo detti le cose in faccia, ho cheisto la disponibilità di fare quello che si doveva fare, ma non è mai facile. Per me non era una sorpresa, dovevamo solo mettere i ragazzi in condizione. E nascondere anche qualche deficit che avevano. Poi per me fu l'emozione più forte in semifinale, non in finale, contro il Cagliari, nel terzo gol. Ho ancora la pelle d'oca".
Una gara di rivincita mentale e fisica, poi la pioggia a condizionare tutto...
"Il calcio è questo, accade spesso. A pensare a che figura di merda che stiamo facendo per essere sotto 3-0 a vincere alla fine. Devi sempre credere e dare tutto, uscire a testa alta e guardare negli occhi allenatore e compagni".
Meglio vincere o il bel calcio?
"Ci sono pochi fortunati ad avere tutti e due. Bel gioco e vincere passa dalla qualità che c'è in campo, di quello che scegli di avere, magari vai anche a spendere. Mantenendo una realtà di quelli che non hanno questo privilegio io scelgo vincere. Non ho ancora mai visto nella mia carriera da giocatore un calciatore contento della sconfitta e del bel gioco. Quello che conta come sensibilità del giocatore è vincere".
Sei laureato anche in Scienze Motorie...
"Nella vitta si può fare di tutto. Quello che cerco di trasmettere ai ragazzi è di andare a studiare. A 17 anni ebbi l'opportunità di andare a giocare all'estero, ma non lo feci. Dovevo finire prima la squadra, per poi vedere il da farsi. Una cosa che mi trasmise la mia famiglia. Condizionava molto la mia vita da calciatore: senza voti buoni non potevo andare a giocare a calcio. Si può fare, non è un sacrificio, non devi riposare, quelli sono tutti alibi. Siccome vivi con quella incertezza io preparo anche il piano B. Cerco di trasmettere anche se non è facile perché si molla scuola con troppa superficialità, invece bisogna farlo. Ti porterà a vivere una vita piena di successi".
Oltre ad essere un allenatore sei anche marito e papà.
"Le mie incertezze e paure più grandi sono lì. Non voglio deludere una donna che ha rinunciato alla sua carriera per starmi accanto, così come non voglio fallire come padre. A volte voglio arrivare a casa . Mia moglie pilastro della famiglia, io voglio sempre migliorare per essere più presente per pareggiare il livello di quello che mi offrono sempre. A volte penso di offrire un po' poco".
Perché?
"C'è qualche situazione della vita che mi fa essere poco presente. Io sto bene con me stesso, non mi annoio mai da solo. Sono maturato parlando con me stesso e a volte divento asociale soprattutto con certe persone che non se lo meritano. Però ho una famiglia meravigliosa e mi impegno sempre per essere all'altezza".
A seguito del videomessaggio di Marco Materazzi, Christian Chivu risponde così: "Lui e Deki quelli con cui ho legato molto nell'Inter, tuttora siamo in contatto. Siamo i fratellio gipsy, una persona eccezionale lui. All'epoca e soprattutto ora però due mancini non possono giocare insieme, anche se è un tabù: in realtà si può fare. Io e lui ci siamo divertiti un sacco, in allenamento io e lui eravamo sempre contro e succedeva di tutto. C'è un'amicizia che ci lega, abbiamo condiviso mille cose insieme perché siamo compagni e amici".
Allora mister si nasce o si diventa?
"Si diventa con passione e dedizione allo studio. Con la voglia di credere ed essere consapevole che uscito dalla zona comfort inizia il percorso e la vita. Nasci come leader, anche se pure lì ti costruisci con l'esempio che dai e gli altri ti seguono, anche per la persona che sei. Quello che conta è il lato umano, con quello che offre. Il resto è tutto soggettivo: uno può essere bravo nel dirigere determinate cose fuori dal campo, ma se uno non è bravo a gestire questo lato è difficile. Per essere mister bisogna dedicare tempo, poi serve integrità, coerenza, flessibilità. Poi non esiste una ricetta o una regola che ti fa diventare, però devi credere in quello che fai. Devi essere in grado di capire al volo se c'è qualcosa da cambiare e non pretendere che gli altri lo facciano per te".
La tua situazione tattica?
"A me non piacciono le cose codificate: se un allenatore da giocatore mi diceva cosa fare lo mandavo a quel paese. Ma a me, lo diceva anche Marco, ho avuto la fortuna di aver avuto una società che mi ha insegnato le cose fondamentali per crescere. Poi ci vuole intuizione e velocità del pensiero. L'occupazione del campo è fondamentale, ti crea linee di passaggio per avere più soluzioni. Non ho un modulo favorito, ho cercato di capire in fretta dove loro rendono meglio. Cerco di metterli in difficoltà perché questo li rende migliori, anche se questa generazione ha bisogno di certezze. Bisogna fargli credere nel percorso, cosa devono fare per migliorare. Mai accontentarsi di quello che si ha, perché si migliora anche a 30 anni. La voglia di fare dei sacrifici, non andare al locale fuori perché il giorno dopo c'è la partita".
Infine cosa ci dici di Esposito e Stankovic?
"Esposito capitano, Stankovic vicecapitano. Avevo bisogno di ragazzi che potessero creare un gruppo. Due uomini veri per gli altri, per creare la simbiosi che ci vuole per creare un gruppo. Uno fa il play e l'altro è la colonna centrale della mia squadra, due 2005 che iniziano a fare la differenza in Primavera. Devono avere pazienza e costruire il loro percorso: sono eccezionali, provengono da due famiglie di ex giocatori. Pio è meglio, perché quelli piccoli della famiglia sanno sgomitare. Il primo ha tutto a portata di mano, il secondo segue e il terzo si fa spazio".
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