Senza paura, senza braccino
Spesso, fate un salto indietro con la memoria, quando si tratta di giocare contro la Juventus, l’Inter pare assalita da uno strano morbo, se si eccettuano rare occasioni, ovviamente: quello della partita piatta, a volte addirittura spenta. Tralasciando, sia chiaro, gare decise da episodi, fischi sbagliati, sostituzioni fuori luogo e tempo. Il mio è un discorso generale, non particolare o specifico. Non è il contatto Iuliano-Ceccarini, per intenderci. È che storicamente, facciamo da quando mi ricordo, meglio, ci capita spesso di zoppicare, non esprimendoci come siamo capaci di fare. Ripeto il concetto, giusto per spazzare dubbi residui: il più delle volte, contro i bianconeri, rendiamo al di sotto delle nostre reali possibilità. Questo, ad esempio, non succede contro il Milan, giusto per citare l’altra grande del calcio italiano, partita che tra l’altro io sento molto più della sfida coi bianconeri, sarà perché nulla batte il derby, sarà perché se vivi a Milano il mattino dopo il barista milanista ti prende in giro, così come il panettiere, l’amico, quello che non conosci ma lui conosce te più altre varie ed eventuali.
Domani sera, però, voglio, non vorrei, l’Inter spietata e concreta dell’anno passato. Voglio, non vorrei, rivedere negli occhi dei miei calciatori il desiderio di rendere complicatissima la marcia degli avversari verso la lotta scudetto, di rivendicare che sì, scusateci nemmeno troppo ma i campioni dell’Italia siamo noi, lo scudetto è merito nostro, non demerito altrui, non diciamolo manco a mo’ battuta per piacere.
Simone Inzaghi, storicamente, quando vede il bianconero lo affronta mettendo l’avversario spesso e volentieri in difficoltà: sia in campionato sia, soprattutto, nelle partite secche, quelle dove c’era in ballo la conquista di qualcosa. Che sarà pure la Supercoppa italiana, per qualcuno un porta ombrelli per me un trofeo che vorrei, anzi voglio, conquistare in questa stagione, però nel curriculum del tecnico piacentino questo balza agli occhi.
Poco importa, anche se importa eccome, e la formazione che scenderà in campo e i compiti assegnati a ciascun giocatore: importa quella roba lì, quella che Stallone definirebbe gli occhi della tigre. Roma è stato un episodio, strano nel suo svilupparsi, una battuta d’arresto non solo inattesa ma del tutto immeritata, senza farsi trarre in colpevole inganno dal mero e gretto risultato. Quell’Inter, quella per intenderci che per quasi settanta minuti ha giostrato fin troppo bene specchiandosi come un novello Narciso nella bellezza del proprio gioco, nei cambi di ritmo, di campo, di velocità dimenticandosi così il cinismo, la cattiveria, l’agonismo in area avversaria che deve essere base delle grandi squadre, quelle che mirano a grandi traguardi, non può bastare. Soprattutto, nonostante la vittoria in Champions assente da tempo immemore sul prato verde del Meazza, l’equilibrio resta la vera incognita su cui potrebbe vertere l’esito della partita. Perché un conto è dare campo e spazio ai valenti macedoni, gruppo unito praticante un calcio elementare ma redditizio, un altro lasciare praterie e ripartenze a gente come Chiesa e Cuadrado, che se ti pigliano un metro poi tu non pigli più loro.
Quindi tanto cuore, tanta attenzione, tanta passione.
Senza la benché minima paura, non deve esistere, e senza quel braccino lontano ricordo di Inter del passato spero dimenticate nei cassetti remoti della memoria.
Siamo l’Inter, siamo i campioni d’Italia. Dimostriamolo: anzi, dimostratelo.
Testata giornalistica Aut.Trib.di Milano n.160 del 27/07/2021
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